domenica 28 marzo 2010

Relativismo della vita o vita di relativismo?

Penso che la vita sia davvero un’incognita e ogni giorno me ne convinco sempre più.
Escluse le solite, banali risposte sul comune “rincitrullimento adolescenziale” che mi hanno citato talmente in tanti, da fare ormai coercitivamente parte del mio repertorio di scusanti, sono giunta alla conclusione (sebbene sarebbe più corretto chiamarla inconclusione) che, oltre a essere indubbiamente enigmatica e imprevedibile, anche qualora la vita fosse analizzata nel modo oggettivo il più possibile, comunque non sarebbe definibile veramente, perché composta da troppe sfumature le quali, in quanto infinite come i pensieri dei sei miliardi di abitanti del globo terrestre, non sono contenibili in un’unica descrizione.
Basti pensare ai pregi e ai difetti, su cui ciascuno di noi si sarà interrogato almeno una volta per cercare di ritrarre una persona: ciò che per uno è un aggettivo positivo, per un altro non solo può essere negativo, ma addirittura il peggiore.
Perciò panta rei, come aveva intuito il caro Eraclito, affermando che tutte le cose sono soggette a un perpetuo divenire, che le muta in continuazione e quindi le fa apparire a ciascuno diversamente che agli altri. E anche, come cantava Jovanotti, dipende, da che dipende. Da che punto guardi il mondo tutto dipende.
Ad ogni modo, questo fatto complica abbondantemente la nostra esistenza poiché, già risulta difficile interagire con il resto del mondo di per sé, ma se poi bisogna pure mettersi d’accordo su che cosa sia facile e cosa difficile, cosa giusto, cosa sbagliato, cosa bello e cosa brutto, diventa davvero impossibile.
Il relativismo della vita è spiazzante, demolendo qualsiasi certezza che prima mi sembrava ovvia e inestirpabile.
E mi stupisco di riuscire ancora a esprimere un vago pensiero senza contraddirmi, o incorrere in una noiosa e inconcludente
oratio in utramque partem.
Insomma, non ci rimane che interrogarci eternamente sui significati vitali, sapendo di uscirne comunque insoddisfatti e incompleti, e rassegnarci così a un’esistenza solcata da un’implacabile voglia di conoscere, che ci darà la possibilità di sfiorare soltanto il senso del nostro essere, ammesso che ci sia.
E poi mi chiedete perché sono triste?