domenica 28 novembre 2010

Lettera a Marcel Proust

Caro Proust,
non potrei essere più d’accordo che in questo momento con la sua asserzione “ciascuno chiama idee chiare quelle che hanno lo stesso grado di confusione delle sue”, poiché per me la relatività di ogni cosa è ormai passata da stupefacente ipotesi, a una di quelle sconcertanti teorie che continuiamo a definire certezze, pur essendo consci di dover dare un valore puramente denotativo al suddetto termine.
Infatti, l’esperienza quotidiana mostra la precarietà di tutti i concetti, ogni volta che si termini una discussione con il classico de gustibus…, quando entrambi gli interlocutori, sebbene sostengano tesi differenti o addirittura opposte, riescono comunque a dimostrare la propria idea; basta anche solo sfogliare un libro di filosofia, per rendersi conto di quanto siano fondati, almeno apparentemente, i giudizi di ciascuna mente che vi è citata, nonostante qualunque di esse presenti grandi diversità rispetto alle altre.
Se riconosciamo questa condizione, allora o abbiamo la presunzione di ritenere che il nostro punto di vista sia il migliore che mai potremmo sostenere, o accettiamo l’impossibilità di conoscere, la quale all’epoca degli scettici aprì una questione tutt’oggi irrisolta e molto dibattuta; oppure, nel caso in cui non dessimo il nostro consenso a nessuna delle due possibilità, ci ritroveremmo a condurre una vita priva di certezze. Ciò significherebbe che la nostra esistenza potrebbe essere vissuta solo alla giornata, e che le nostre riflessioni sarebbero solamente degli inutili sproloqui: dovremmo vivere una vita senza il diritto di fare progetti, perché non avremmo alcun obiettivo da raggiungere, dal momento che non saremmo in grado di scegliere cosa sia degno di essere raggiunto, e senza nemmeno la possibilità di sviluppare e approfondire pensieri, dato che non saremmo in possesso di criteri indubitabili su cui costruire una scala di attendibilità.
Sant’Agostino si svincolò da questa aporia affermando “si fallor, sum” cioè che, se l’uomo cade nel dubbio e si inganna, il suo errore non è altro che la prova che egli esista. In questo modo potremmo aggrapparci alla certezza della nostra esistenza, per evitare la relatività, possedendo almeno una conoscenza sicura; però io non ritengo sia una valida spiegazione, giacché così si affermerebbe che dovremmo condurre una vita, basandoci sul solo fatto che indubbiamente ci tocca vivere...
Anche Cartesio col suo “cogito ergo sum” si è interrogato sul sopracitato problema, sostenendo l’esistenza della certezza che l’uomo ha di sé, in quanto essere pensante, ma così non fece altro che sottolineare quella visione di un’esistenza priva di verità assolute, nella quale tutto dipende dissennatamente da noi.
Insomma, quello che vorrei chiederle è come sia possibile accettare di vivere una vita, coscienti che essa non sia più di una mera illusione, ingigantita dagli effimeri giudizi degli uomini, i quali, ogni volta che esprimono un parere (che in quest’ottica non può che essere sbagliato), precipitano sempre più in quell’abisso di teorie mai veritiere.
Ma soprattutto, caro Marcel, per quale motivo perseveriamo nel dimostrare l’indimostrabile?

martedì 16 novembre 2010

Difficile emancipazione femminile: di chi è la colpa?

Si è soliti addurre le colpe della difficile emancipazione femminile a questioni socio-politiche, che obbligano le donne a lavorare molto più della popolazione maschile senza trarre gli stessi meriti di quest’ultima.
Infatti, come afferma Maurizio Ricci in una articolo su La Repubblica, se le donne si devono occupare non solo del proprio posto di lavoro, ma anche di tutti quegli straordinari che i compiti domestici comportano, è proprio colpa della politica, la quale riduce le famiglie in situazioni economiche assai precarie, costringendo così le donne a sostenere ritmi lavorativi decisamente estenuanti.
Oltre alla questione economica vi è poi quella sociale: in passato e ancora nella società a noi contemporanea sono radicati concetti, che limitano la libertà femminile. Questo tema è stato ampiamente trattato da Virginia Woolf, che nel suo saggio intitolato A Room of One’s Own, ipotizzando che William Shakespeare avesse avuto una sorella di pari doti letterarie, mostra come questa non avrebbe mai potuto raggiungere la fama del presunto fratello; innanzitutto perché le sue capacità sarebbero state velocemente screditate dalla collettività, ancora sospettosa nei confronti delle donne lettrici, figuriamoci scrittrici, ma anche perché in quanto donna non avrebbe potuto ricevere la stessa educazione di un coetaneo maschio.
Oggi la stessa situazione ci si ripresenta, quando tra un uomo e una donna con uguali meriti viene concessa maggiore fiducia all’individuo maschile, perché ritenuto più forte, dal momento che a causa di qualche inspiegabile luogo comune le donne sono sempre più fragili degli uomini, e perciò viste come meno affidabili e competenti.
Poi, basterebbe spostarsi in Oriente per rendersi conto che esistono stati, in cui le donne sono vittime di una discriminazione che addirittura le priva degli stessi diritti civili degli uomini, come per esempio avviene in Afghanistan, dove il governo, essendo basato sui fondamenti della religione islamica, considera le donne esseri inferiori, a cui conseguentemente vengono sottratti il diritto all’istruzione, al lavoro, alla salute, e anche quello di ricorrere alla legge.
E’ perciò chiaro che la strada verso una vera e propria emancipazione femminile è ancora molto lunga.
Però, bisogna notare che non tutti i fattori che concorrono a limitare la parità dei sessi sono esterni al mondo femminile: le tematiche socio-politiche precedentemente affrontate non comportano infatti ostacoli insormontabili e, sebbene per la popolazione maschile non siano così presenti, esse non costituiscono delle sufficienti motivazioni alla sottomissione femminile, cosa di cui sono la prova le innumerevoli figure femminili ricordate dalla storia.
Difatti, spesso accade che le donne stesse dimentichino che, essendo ugualmente degne di libertà e diritti di qualunque essere umano, sono, come appunto chiunque altro, fautrici della propria sorte e quindi anche della propria sfortuna.
Per esempio, Edward Lee Masters nella sua opera Antologia di Spoon River presenta la storia di Margaret Fuller Slack la quale, una volta sposatasi, dovette rinunciare al desiderio di scrivere un romanzo; i versi dell’epitaffio che la riguardano, fanno chiaramente intendere come in realtà le sue medesime scelte siano state la causa dell’irrealizzazione delle sue volontà. Infatti, anche se prese delle decisioni dettate da quello che i costumi contemporanei ritenevano giusto per una donna per bene (“Ma c’era il solito, eterno problema: celibato, matrimonio o libertinaggio?”) e non in base al suo pensiero, resta il fatto che fu Margaret e nessun altro a fare le scelte che la portarono ad avere otto figli e non più tempo per scrivere.
Come in questo caso, quando si parla di emancipazione femminile, si tende a prendere in considerazione solo le ingiustizie subite dalle donne, senza tenere presente che il processo di emancipazione dovrebbe partire proprio da queste ultime, le quali invece si trovano spesso a essere vittime di scelte compiute da loro stesse.
E’ quindi evidente che nella vita le donne debbano superare più difficoltà degli uomini, però è necessario che le difficoltà, siano esse sociali, economiche o politiche, non diventino una scusante per tutti i loro insuccessi; ecco che l’emancipazione femminile sta anche nella convinzione che la donna, non solo possa raggiungere gli stessi successi di un uomo, ma averne pure le medesime colpe.

domenica 14 novembre 2010

L'importanza della letteratura

Il termine letteratura designa una forma d’espressione umana e deriva dal latino littera che potremmo genericamente tradurre in lettera dell’alfabeto.
Questo termine però, si riferisce a un concetto molto più ampio di quello che si potrebbe pensare intendendolo unicamente come segno grafico, quindi connesso solo a ciò che possediamo per iscritto; infatti, fanno parte della storia letteraria molte opere oralmente tramandate, come per esempio i celeberrimi poemi omerici o le più recenti storie dei Griot africani, e anche i linguaggi utilizzati dagli uomini primitivi, essendo nati per permettere la comunicazione, fine comune anche a tutte le forme letterali a essi successive, devono essere considerati letteratura, sebbene non se ne possieda ovviamente alcun documento.
Questa riflessione, oltre a mostrare l’incredibile antichità dell’arte della parola, vuole sottolineare come quest’ultima sia stata e continui a essere uno dei più potenti mezzi nelle mani dell’uomo.
Già Pindaro, poeta greco del secolo VI a.C. lo aveva compreso con l’affermazione “quando la città che celebro sarà distrutta, gli uomini che canto saranno scomparsi nell’oblio, le mie parole perdureranno”, evidenziando così l’immortalità della letteratura, di cui sono conferma le ore che ancora oggi dedichiamo alle litterae scritte o pronunciate cinquecento, mille, più di duemila anni fa; la scorsa settimana ce lo ha ricordato pure Roberto Benigni, dicendo che “quando un uomo con la pistola incontra un uomo con la biro, l’uomo con la pistola è un uomo morto perché la biro dà l’eternità”.
Insomma l’autorevole e preziosa letteratura, dopo aver solcato tempi trapassati, ritagliandosi un conseguente ruolo di profonda importanza nel futuro, fa inevitabilmente parte del presente in modo assai influente.
Allora, se anche voi riconoscete la magnificenza della parola, vi sarà chiaro il motivo che sta alla base di questa pagina dedicata alla letteratura, che di codesta  mira a scoprire l’essenza di spesso inconscio ma eterno possedimento umano: infatti, “Tutti gli uomini da Adamo in giù fino al calzolaio che ti fa i begli stivali, hanno nel fondo dell'anima una tendenza alla poesia. Questa tendenza, che in pochissimi è attiva, negli altri non è che passiva, non è che una corda che risponde con simpatiche oscillazioni al tocco della prima”.
Quindi, come spiega Giovanni Berchet nella Lettera semiseria del Grisostomo al suo figliuolo, non ci resta che coltivare il nostro potenziale diritto all’eternità.