venerdì 27 aprile 2012

ON AIR

Il piccione appollaiato sul lurido cartello stradale che indica la trentatreesima sembra essere l’unico in apprensione per un’anziana, seduta sulle strisce pedonali.
Quando stava attraversando l’incrocio, la vecchietta è inciampata nelle borse della spesa. Mentre cerca di rimettersi in piedi incalzata dai clacson degli automobilisti, un ragazzo mi si avvicina divorando con morsi feroci una delle mele che ora ricoprono l’attraversamento pedonale.
Io e alcuni miei colleghi stiamo rientrando dalla consueta pausa pranzo.
Prima di riprendere il lavoro in cima al grattacielo, dove non c’è mai campo, faccio un paio di telefonate per confermare la prenotazione al ristorante sotto casa. Stasera credo proprio che John si deciderà a chiedermi di sposarlo.
Nel frattempo i miei colleghi hanno ripreso le loro postazioni di lavoro: tra poco l’Empire avrà i riflettori puntati addosso, quindi anch’io mi sbrigo a rientrare e a salire al mio piano, l’ottantunesimo.
Raggiungo la mia scrivania. Finisco di riempire uno scatolone con gli oggetti rimasti sul tavolo e lo porto a Camille, a cui è stato affidato il compito di sistemare le nostre cose al sicuro, prima che la cosiddetta evacuazione abbia inizio.
Ho appena impilato la mia scatola sulle altre, quando suona l’allarme. Mi volto verso Camille: “È in anticipo.” “Hai ragione” mi dice. Insieme ci avviamo verso l’ascensore come prestabilito, mentre la sirena continua a squillare assordante.
“Ho dimenticato la borsa!”
“Ok, muoviti e valla a prendere.”
Corro energicamente verso la mia scrivania: mi tremano le mani e il torace.
Facendo un respiro profondo mi getto la tracolla sulla spalla sinistra. Intanto la sirena smette di suonare e io corro di nuovo verso l’ascensore.
Non c’è più nessuno.
Chiamo insistentemente l’ascensore ma non c’è niente da fare, l’hanno già messo fuori uso.
Mi fiondo giù per le scale di emergenza finché, arrivata fino al sessantatreesimo piano, un crampo mi contrae un polpaccio e due guardie mi afferrano per le braccia; prima che io possa mostrargli di essere dello staff, mi strattonano in una delle stanze blindate adibite a contenere i visitatori prescelti durante l’evacuazione.
Non può essere vero.
Mi ritrovo in una saletta di circa venti metri quadrati insieme ad altre due persone.
Sbatto i pugni, le mani, gli avambracci, i piedi contro la porta, ma i due tizi vestiti da guardie se ne sono già andati. Sono spacciata insieme a un uomo e a una donna che sembrano non essersi mai visti prima.
I due mi guardano disorientati e la donna subito mi domanda: “Dicono che c’è una bomba, è vero?”
Mi si mozza il fiato.
Cercando di inghiottire lo sguardo con le palpebre, mi limito a risponderle in apnea: “Non so.” Scivolo lungo la parete di fianco alla porta e lì mi accuccio con la guancia destra contro il muro.
Dopo un secondo, un minuto o forse una mezzora, la stanza vuota incomincia a riempirsi delle parole dei miei consorti: la loro voce convinta e convincente si scambia battute di breve conforto. Poi si mostra più fragile e i due si rivolgono parole interrogative, spezzate, come se stessero per scoppiare a piangere, sacrificando la fluidità della conversazione, allo scopo di evitare lo sgorgare imminente delle lacrime.
Entrambi si gettano contro la porta. All’inizio cercano di aprirla, ma appena percepiscono la durezza della serratura chiusa a più mandate, iniziano a batterla con tutta la violenza che riescono a trovare nelle nocche sottili, nelle dita appiattite, nelle spalle, nella punta delle ginocchia, nella suola delle scarpe e persino nella fronte.
Mentre il ragazzo continua a colpire la porta con pugni echeggianti, la donna indietreggia con le mani spalancate, tremanti e violacee. Inizia a camminare freneticamente per la stanza. Vede il condotto dell’aria: è ad altezza d’uomo, basterà un po’ di forza e di agilità per mettersi in salvo, pensano entrambi, ora che l’hanno visto. Tentano insieme di sradicarlo. Cercano di eliminare la grata a chiusura del condotto: la tirano, la spingono, la strattonano, la implorano, invano. Loro non sanno che è stata sigillata un paio di giorni fa insieme a tutte le altre possibili vie di fuga, in quella come in altre decine e decine di stanze del grattacielo.
Quando hanno ormai completamente saggiato la loro impotenza, lei si siede al mio fianco, singhiozzante.
Mi racconta che suo figlio sta per laurearsi alla NYU e che questo pomeriggio ha lasciato suo marito in albergo, perché voleva farsi un giro per la città. Dice che non è mai stata nella grande mela, come se la macchina fotografica ancora appesa al collo insieme alle guide che le spuntano dalla borsa non lo dimostrassero inequivocabilmente; le sue lacrime ininterrotte mi fanno capire che questi fatti, a lei, moglie e madre, che non era mai stata a New York, sembrano motivazioni più che valide per cui tutto quello che ci sta accadendo non possa essere reale.
Nel frattempo il ragazzo si è spostato davanti alla finestra: con il cellulare in mano contempla quel rettangolo di cielo crepato dalle punte dei tanti grattacieli che, simili a rami disarmonici di un albero infetto, scrutano dall’alto le colonne gialle di taxi, immobili lungo le strade come se fossero foglie secche.
“Non c’è campo” gli dico, mentre la signora soffoca un gemito a causa dell’ennesima prova che siamo intrappolati. Lui si infila il telefono in tasca senza distogliere lo sguardo dalla finestra. Sembra ancora anelare a liberarsi dall’inespugnabile sessantatreesimo piano. È uno di quei soggetti che non immagineresti mai di incontrare a una mostra, soprattutto da soli.
Passavo interi pomeriggi a osservare i tipi come lui attraverso i monitor delle telecamere di sorveglianza, quando si facevano sentire acuti i dubbi riguardo alla benignità di questa evacuazione.
Inizialmente sembrava un buon progetto. Avrebbe risollevato le finanze dei proprietari dell’Empire, gonfiato conseguentemente gli stipendi dei dipendenti ed evitato i licenziamenti che incombevano innumerevoli. Però non ci avevano spiegato chiaramente il fulcro del progetto: una volta che fu precisamente esposto, divenne troppo tardi per tirarsi indietro e quel fondamentale particolare trascurato diventò una vera e propria minaccia per tutti noi al corrente della programmata evacuazione.
L’unico dipendente a opporsi nonostante tutto era stato Sam.
Il giorno in cui ci hanno convocati individualmente, sicuri di raccogliere un consenso unanime, lui solo si era rifiutato di acconsentire. Da allora non lo abbiamo più rivisto.
Nessuno ha mai saputo che cosa abbia detto durante quel colloquio, ma l’immagine di lui che sbatte la porta dell’ufficio, in cui ci chiamavano a pronunciare la scelta, era stata il principale oggetto dei bisbigli tra colleghi in ascensore. Tuttavia, dal momento in cui la sua scomparsa era divenuta evidente, non ne parlò più nessuno; non so se perché ormai aveva assunto la macabra pericolosità di una notizia di cronaca nera o perché risvegliava un certo senso di colpa in noi, che conoscevamo la sua opinione, ma mai e poi mai avremmo creduto che sarebbe giunto a tanto per difenderla.
La donna al mio fianco smette per un attimo di piangere e rivolge gli occhi assorti verso il condotto dell’aria. Dalle stanze più vicine alla nostra ci raggiungono le voci degli altri inconsapevoli detenuti e la saletta si affolla di fantasmi, che piangono, imprecano, urlano, stanno in silenzio.
Nel generale grido di disperazione si staglia il rombo di un elicottero sopra di noi.
I miei due compagni si avvicinano alla finestra, schiacciandosi contro il vetro. Gli occhi lucidi della signora ci dicono che probabilmente sono venuti a salvarci. Io mi alzo e li raggiungo alla finestra.
Come immaginavo, l’elicottero è della Cablevision, l’azienda proprietaria del Newsday. È questo il quotidiano insieme a cui i proprietari dell’Empire hanno concordato l’odierna evacuazione, per risanare il deficit nei rispettivi bilanci. Gli accordi sono stati elementari: il grattacielo fornisce al giornale e alla compagnia di telecomunicazione una notizia sostanziosa, in cambio riceve una parte abbondante dei guadagni ricavati dallo spettacolo inscenato.
Se l’elicottero è già arrivato, significa che mancano ormai pochi minuti allo show. Pochi minuti allo scoppio delle bombe posizionate a metà del grattacielo.
I visitatori rinchiusi nel gigante di cemento sono l’inconsapevole moneta di scambio dei proprietari dell’Empire: l’evacuazione, anziché servire a metterli in salvo, era l’espediente per incastrarli.
Io sono rimasta impigliata nella rete dopo averla tessuta.
Il ragazzo e la signora mi stanno vicini tanto da sentire sulle braccia il tremito del loro respiro. Improvvisamente un primo scoppio li fa gridare: mi stringono ancora più forte e piangono ansimando.
Gli occhi mi bruciano e un fastidio mi occlude la gola all’altezza delle tonsille. Il ragazzo rimane pietrificato, ma il suo sguardo non corre più fuori dalla finestra, fissa la stanza rimbalzando dalle pareti alla porta, poi sul pavimento, sul soffitto e ancora sulla porta.
Era dal 2012 che non piangevo più.
Riesco a sentire la voce crescente della donna, che alle mie spalle incalza continui: “No no no”, finché un tonfo polveroso fa calare il buio.
Mi ritrovo sudata e ansimante nel mio letto.
La sveglia sta suonando sul comodino di John. Mentre io rimango seduta sul materasso sconvolta, la tachicardia sembra incalzata dal ritmo rapido e penetrante della sveglia.
John fa arrestare l’allarme e, appoggiandomi una mano sulla gamba sinistra, mi chiede con gli occhi ancora socchiusi se va tutto bene.
Un respiro profondo riesce a rallentare la contrazione del mio organo cardiaco, che continua a rimbombarmi in gola. Accenno una serie di si con la testa, prima di lasciarmi ricadere sul materasso con gli occhi appesi al soffitto.
Oggi non vado al lavoro.
Penseranno gli altri all’evacuazione.

2 commenti:

  1. Ciao mia amica! Saluti. Come stai? Spero che tutto e' bene. Tu sei una scrittore buonissima. Quando è venuta la tua prossima rata? Mantenere la scrittura! Tornato a leggerlo.

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    1. Hi Mario!
      Thank you so much for the compliments: I'm glad that you have read my last post and very happy that you like it.
      Lately I'm very busy, so writing is unfortunately not at the top of my to do's list and I think it won't be till the end of june. However, I'm well. Hope you're well too.
      Have a nice weekend, friend!

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