domenica 22 aprile 2012

Pensosità o frivolezza? Un po' di Calvino.

Negli ultimi decenni dell’Ottocento Emile Zola sosteneva: “I nostri artisti devono trovare la poesia nelle stazioni come i loro padri l’hanno trovata nelle foreste e nei fiumi”.
Questa frase condensa in sé magistralmente uno dei problemi fondamentali della letteratura di tutte le epoche, ma in particolare di quella moderna, che deve ininterrottamente confrontarsi con una realtà mutevole e costantemente spronata alla trasformazione, all’evoluzione; il problema è la conciliazione della realtà con la scrittura, una questione talmente importante che, lasciandosi alle spalle l’Ottocento per più di un secolo, possiamo facilmente ritrovarla in uno dei maggiori scrittori della letteratura italiana, Italo Calvino.
Infatti, nelle Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, riferendosi al tempo dei suoi esordi letterari, lo scrittore parla del “dovere di rappresentare il nostro tempo” come se fosse “l’imperativo categorico d’ogni giovane scrittore”, sottolineando così la necessità di riuscire a fondere nella letteratura “il movimentato spettacolo del mondo” e il proprio “ritmo interiore” che lo spinge a scrivere.
Tuttavia, iniziare a ricercare una sintonia tra il cosmo fuori di noi e quello dentro di noi fa comprendere quanto sia vasto il divario tra questi due mondi. Perciò Calvino, riferendosi sempre al suo debutto nel mondo della letteratura, afferma: “stavo scoprendo solo allora la pesantezza, l’inerzia, l’opacità del mondo” e, successivamente, passa ad analizzare i diversi atteggiamenti che possono assumersi nei confronti del problema. Li riassume in “due vocazioni opposte” che “si contendono il campo della letteratura attraverso i secoli: l’una tende a fare del linguaggio un elemento senza peso, che aleggia sopra le cose come una nube, o meglio un pulviscolo sottile, o meglio ancora come un campo d’impulsi magnetici; l’altra tende a comunicare al linguaggio il peso, lo spessore, la concretezza delle cose, dei corpi, delle sensazioni.”
La prima vocazione, che Calvino chiama “leggerezza della frivolezza”, nel corso della storia della letteratura si può riconoscere, per esempio, nella poesia barocca di Giovan Battista Marino, il quale nell’Adone impiega un linguaggio estremamente ricco di figure retoriche che si perdono in interminabili digressioni riguardo a oggetti superficiali, inutili, frivoli appunto, e che quindi discostano il linguaggio dalla realtà e lo presentano come qualcosa “che aleggia sopra le cose come una nube”. In modo simile anche D’annunzio pone il contenuto in secondo piano rispetto alla forma.
Ad esempio, ne Il Piacere la trama risulta esile ma viene ampiamente diluita dall’ossessiva attenzione per i particolari e dalla ricercatezza lessicale, che sempre connota lo stile dannunziano e la cui massima espressione è La pioggia nel pineto: in questa poesia, infatti, non la vicenda amorosa tra il poeta ed Ermione risulta l’elemento protagonista, bensì la meravigliosa musicalità dei versi, ottenuta attraverso frequentissime allitterazioni, consonanze, assonanze e vari richiami fonici tra i versi.
La seconda vocazione, invece, è rintracciabile nelle commedie di Plauto e Aristofane, dove la lingua trasmette a tal punto “la concretezza delle cose” da diventare spesso cruenta e volgare; oppure nel verismo di Verga che, pur di ritrarre al meglio la realtà, scrive I Malavoglia traducendo espressioni, strutture e formule del dialetto acitrano nella lingua del ceto medio dell’Italia a lui contemporanea, estranea, fino a quel momento, al modo di esprimersi e di pensare degli abitanti di Aci Trezza.

Questo atteggiamento, che pone la scrittura al servizio della realtà, e perciò sancisce il primato di quest’ultima sulla forma, è definito da Calvino “leggerezza della pensosità”.
Dunque, quale partito sostenere, a quale opzione dare il proprio assenso?
Calvino propone come modello di risoluzione del problema una mediazione che egli trova nella poesia di Leopardi, sostenendo che “il miracolo di Leopardi è stato di togliere al linguaggio ogni peso fino a farlo assomigliare alla luce lunare.” In altre parole, Calvino propone di trattare dell’”insostenibile peso del vivere” con “leggerezza”, mostrando così un possibile compromesso tra “leggerezza della pensosità” e “leggerezza della frivolezza”.
In questo modo, difatti, si realizza una letteratura che si occupi di realtà senza rinunciare alla cura formale e, allo stesso tempo, eviti di cadere in superficiali formalismi che trascurano la concretezza del contenuto.
Inoltre, il modello leopardiano si riconosce nell’adesione di Calvino al neorealismo. Infatti, questo movimento letterario, durante la prima metà del XX secolo, si accosta al reale attraverso l’invenzione fantastica, conciliando così un contenuto che attinge alla realtà con la forma della finzione letteraria. In questo senso, per esempio, ne Il visconte dimezzato Calvino traduce il tema del senso universale di incompletezza dell’uomo nell’immagine particolare e singolare di un uomo diviso in due metà, mescolando in questo modo la “leggerezza della pensosità” con la “leggerezza della frivolezza”; un’ottima proposta, insomma, per cercare di “trovare la poesia nelle stazioni.”

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