venerdì 6 marzo 2015

(il)legale

Oggi, in piazza, coriandoli
bambini
piccioni
turisti
piccioni
giovani più o meno vecchi
musici di strada
e mitra
neri
in braccio ai soldati
davanti alle porte del Duomo.
Mi chiedo: questo
è normale
è legale?

Nella mia città
strade ingombre di camionette
“sicurezza urbana”
ma l’unica sicura
è quella che non c’è alle armi
nelle mani di uomini,
anche se hanno una tuta mimetica
anche quando indossano una divisa;
soprattutto, forse. Lo so.
Non c’è bisogno
di un altro Aldrovandi.
Allora mi domando
cos’è legale?

Se la legalità
diventa illegale,
se la giunta anticorruzione
chiede tangenti, a Palermo,
se le tasse sono insostenibili
per chi le paga,
se legale non rima con uguale
e la sanità è un lusso
e avere un tetto non è un diritto,
meglio lasciare le disabitazioni,
se i tempi della giustizia
fanno ritardo,
se l’Europa spara
addosso ai migranti,
se Stefano Cucchi non è stato il primo,
non sarà l’ultimo,
perché
la legge?

Di legale
sembrano rimanere: l’imperativo
alle detenute
di qualche manicomio criminale
e gli studi degli avvocati,
almeno sulle targhe.
Il resto
è la frase di un vecchietto
in piedi sull’autobus:
ognuno pensa a sé
e per gli altri se ce n’è.
Ma io non mi accontento
non li lascio fare.
Ho i miei comandamenti.
Non essere presentisti.
Mai ammutolire.
Risignificare la legalità
è la speranza
è la volontà
d’essere giusti
nel giusto stato.
Come chi non è stato
responsabile di aver delegato
i propri diritti.

lunedì 2 marzo 2015

Il Filo

Lacrime strabordano
le palpebre
scorrono
sgocciolano
pesanti
senza dighe,
nessun argine
se non –

Se non ?
Se non, cosa?
L’amor proprio?
L’amor e basta?
La poesia?
La filantropia?
Il godimento? Il sesso?
Se non che?
Se non chi?
Io non lo so.

Amici, non lo so.
Nemici, nemmeno.
Io piango.
Passo le ore con le palpebre che tirano
con le ciglia incollate
la gola stritolata
e i perché sono tanti;
talmente
che mi passa la voglia
di scriverli.

Che mi passa la voglia
di capirmi
e mi sale il bisogno
di fuggire
– anche da qui, anche da
me –
scappare
per guardare da lontano
con distacco
il simulacro dei miei pianti.
Forse
solo
allora
potrò abbracciare la disperazione
che so di non sapere
dire
in questi tempi
dove
se potessi
eviterei di frequentarmi.

In questi tempi
di padri e madri virtuali:
se sto male
mi curano i forum,
mi consolano con gli emoticon
di avatar-medici, gratis
quanto l’ipocondria dal dottor Google.
In questi tempi di stati
senza essere,
a morire sopra una tastiera
fra le freccette
che usiamo per scorrere le vite degli altri
che sono solo apparenza
luccicosa ma inconsistente, inesistente.
Ché se ci si fondesse il modem
scorderemmo chi siamo.

La disperazione
di questi tempi senza risposte
solo imposte
solo supposte,
vedi? Bisogna parlare come un rapper
per farsi ascoltare
(senza musica le parole fanno troppa paura)
in questi tempi,
che io non voglio
che io non voglio più poetare
perché i cadaveri
i cadaveri dei vostri sogni estinti
ancor prima di averci provato,
dei detenuti massacrati,
dei corpi seviziati dalla religione,
delle mie parole
una volta vive;
i cadaveri torturati dall’indifferenza
quando ci accontentiamo della disinformazione
di un buon livello di ignoranza,
quando chiediamo: come stai?
Senza attendere risposta.
O quando evitiamo la sincerità
perché codardi
perché sappiamo che nessuno chiede
interessato a come stiamo
e ci va bene così,
ci va bene
che la gente parli e non dica.
Pensi e non rifletta.
Senta, insensibile.

Ma i cadaveri imputridiscono
e l’olezzo,
che io non voglio più poetare,
è sotto i nasi di ognuno.
Come la disperazione
che questa poesia
non sia una poesia;
è la radiocronaca
dal cimitero
che ho nel cuore,
dall’ospedale
che ho nella testa,
in questi tempi
che non so.

In questa vita di labirinto
dove l’unica certezza
è ch’io non sono
Arianna.
Mendico il filo.
Voi datemi un’indicazione, una sola
– vi prego!
fatemi un cenno
e io vi giuro
che mi impegno
a scrivere nuova poesia.